NO al referendum sul taglio dei parlamentari

 

Ci risiamo.

Ancora una volta siamo chiamati a un referendum che deve decidere se cambiare o no la Costituzione su un punto nevralgico: la composizione del Parlamento della Repubblica.

Un filo rosso unisce gli ultimi referendum costituzionali a quello del prossimo autunno: perché, per quanto siano stati presentati da forze politiche apparentemente antitetiche, in tutti questi casi il movente della riforma in discussio-ne è stato, e ancora è, un profondo antiparlamentarismo. L’idea, cioè, che il male dell’Italia sia un eccesso di demo-crazia: troppi parlamentari, troppa lentezza procedurale, troppi contrappesi, troppi controlli. Il bene della democrazia consisterebbe, invece, nell’efficienza delle decisioni, in un franco e vigoroso decisionismo.

Non è un caso se tutte queste riforme sono state presentate da partiti e movimenti di fatto privi di vera democrazia interna.

In un momento in cui le leggi vengono quasi sempre scritte dai governi, e i governi stessi non hanno più alcuna for-ma di collegialità essendo egemonizzati dalla figura, di fatto monocratica, del Presidente del consiglio dei ministri (e in fin dei conti dagli uffici della Presidenza del Consiglio), si comprende che il Parlamento possa sembrare un’inutile e costosa rappresentazione teatrale. È un ben triste paradosso: gli emicicli parlamentari hanno ereditato la loro forma dai teatri greci, culla e prefigurazione della moderna vita democratica, e oggi non sappiamo più né a cosa servano i teatri né a cosa servano i parlamenti.

Ciò che rischiamo di perdere è l’idea che sia vitale rappresentare l’articolazione e il conflitto di una società com-plessa.

Il Parlamento è il luogo in cui si costruisce l’interesse generale: e lo si costruisce non nascondendo, ma agendo, il conflitto sociale, alla luce del sole. È un luogo di pensiero, di coscienza, di progettazione del futuro: tagliare i parla-mentari vorrebbe dire compiere un piccolo, ma significativo, passo in direzione contraria. Nella direzione, cioè, di un’Italia ancor meno capace di rappresentarsi, ancora meno capace di dare voce a chi non ha voce.

E non illudiamoci: non daremmo più potere al popolo sovrano, ma agli interessi privati di pochi. L’elezione diretta dei sindaci, che fu l’inizio di questa deriva “decisionista” e anti-rappresentativa, coincise con la sterilizzazione dei bilanci comunali. La lezione è molto chiara: mentre ci diciamo che costruiamo forme di democrazia diretta (presi-denzialistica o plebiscitaria che sia), la verità è che vengono tolte di mano alla politica in generale le vere leve del co-mando: un comando che appartiene sempre di più alle brutali forze economiche il cui vero interesse è non sottostare in alcun modo all’interesse generale.

Ridurre i parlamentari significa compiere un altro passo in questa direzione: meno politica, meno rappresentanza, meno diffusione del potere.

Umiliare e tagliare il Parlamento significa fare il gioco di chi ha già il controllo della ricchezza, e giocare contro tutti gli altri: e soprattutto contro i più poveri, contro i più indifesi, contro chi non ha davvero null’altro se non una possibile rappresentanza parlamentare.

Le incertezze e i balbettii della sinistra italiana (quando non l’esplicita complicità in questo disegno antidemocra-tico) rivelano quanto l’arco della rappresentanza stia già lasciando fuori le fragilità del Paese: chiudere ancora questo arco significa non lasciare davvero nessuno spiraglio a un possibile cambiamento.

Il paradosso è questo: votare sì e tagliare i parlamentari significa conservare l’Italia com’è oggi, anzi condannarla a un’ulteriore sclerosi, a un’ulteriore estromissione dell’interesse generale a favore dei pochi interessi forti. Votare no, significa riaffermare che non siamo disposti a smantellare anche formalmente la democrazia costruita dalla nostra Costituzione: perché la democrazia è l’unica via possibile per costruire una società davvero più giusta e più uguale.

Fonte

Di seguito le ragioni del NO riassunte in 10 schede.

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