Codice di libero appalto

La notizia dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di fine marzo del nuovo Codice degli appalti (“salvo intese” e cioè con possibilità di ulteriori modifiche del testo sino alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ai primi di aprile), con la previsione dell’obbligo di affidamento diretto degli appalti sino a 150.000 € (esteso a 500.000 € per i piccoli Comuni) e la procedura negoziata sulla base di soli cinque inviti a presentare offerte per gli importi sino a 1 milione di Euro e 10 inviti per importi tra 1 e 5,4 milioni di Euro ha ovviamente suscitato immediate preoccupazioni circa la possibilità che ciò possa incentivare sia procedure di favore verso imprese “amiche” da parte di amministratori più attenti al “consenso elettorale guidato” che agli esiti di “buongoverno” sia intese di “cartello” raggiunte in modo più o meno consensuale o forzoso tra le aziende offerenti.

Si stima che nel complesso più del 90% delle opere pubbliche verranno affidate all’esecuzione da parte delle imprese private senza una procedura di gara ordinaria allargata.
Inoltre la possibilità di subappaltare ad altre aziende senza alcun limite di importo e qualità tecnica i lavori esternalizzati rispetto a quelli oggetto dell’appalto ottenuto originariamente favorisce la creazione di aziende a carattere puramente finanziario, con lo scopo di essere in grado di assolvere formalmente ai requisiti economico-organizzativi richiesti, ma in realtà quasi totalmente prive di contenuti e strumenti tecnico-operativi adeguati, surrogati da aziende via via più marginali e meno affidabili sia in termini di attrezzature sia di garanzie nell’organizzazione della sicurezza e qualità delle condizioni di lavoro.

Tutto ciò è stato ampiamente denunciato non solo dagli strumenti di informazione generale e di settore, ma anche – ognuno per le proprie competenze – dal Presidente dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione – ANAC (attirandosi gli strali del Ministro delle Infrastrutture Salvini, con l’accusa di incompatibilità col proprio ruolo di imparzialità per preconcetta opposizione), dai Sindacati e da numerosi esponenti della Magistratura, questi ultimi in particolare facendo rilevare che i contestuali provvedimenti di depenalizzazione delle violazioni delle procedure in tema di realizzazione di opere pubbliche, fa sì che i comportamenti scorretti o i veri e propri reati verso le Amministrazioni Pubbliche finiscano per essere ritenute e sanzionate in modo meno grave che nei confronti di altri privati, insomma una sorta di “eccesso in legittima difesa”.

Vi è però un altro aspetto che forse sinora è stato meno sottolineato, ed è che queste “opere pubbliche” sono quelle che vanno in gran parte a definire l’assetto del territorio e degli spazi urbani con cui si confronta la gran parte della popolazione.

Ora, è del tutto logico e conseguente che da parte di coloro che hanno sempre più estesamente praticato nel corso degli ultimi decenni la scelta di “appaltare” ai privati la definizione progettuale di quanto, come e con quali spazi e servizi pubblici realizzare la città e il territorio (sotto l’accattivante falsa innovatività della definizione “rigenerazione urbana”, che in realtà configura un vero e proprio ritorno al periodo degli Anni ’50-’60, noto come “le mani sulla città”), si voglia ora consentire di appaltare ai privati non solo l’esecuzione delle poche opere ancora di progettazione pubblica (quando non si preferisca addirittura l’appalto-concorso nell’ideazione stessa del progetto) ma anche la completa privatizzazione della loro organizzazione esecutiva.

Un sempre più esteso ritrarsi della Pubblica Amministrazione dal proprio compito di costruzione di un ruolo collettivo e partecipato nella definizione dell’assetto fisico del Paese, nella falsa convinzione che solo le decisioni privatisticamente assunte in totale libertà dal controllo pubblico siano in grado di garantire rapidità ed efficienza, anche se spesso dando spazio al sopruso a scapito dell’equità.

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